a cura di Roberto Viganò, Studio Associato AlpVet, Associazione Ars. Uni. VCO; Eugenio Demartini, Dip. Scienze veterinarie per la salute, la produzione animale e la sicurezza alimentare (VESPA) - Uni. Milano; Andrea Cottini, Associazione Ars. Uni. VCO
Saper gestire correttamente le risorse naturali senza arrecare danno al territorio è una sfida quanto mai attuale e rappresenta forse l’unica pratica sostenibile in grado di ridare impulso allo sviluppo socio-economico delle aree a vocazionalità rurale. La ricchezza dei territori disagiati dal punto di vista produttivo-economico risiede, infatti, quasi esclusivamente nell’ambiente come elemento essenziale e caratterizzante non solo del territorio, ma anche delle tradizioni e degli usi di chi vi risiede.
Sulla base di queste considerazioni, nel 2014 in Val d’Ossola (Provincia di Verbania) ha preso avvio il progetto “Filiera Eco-Alimentare”, legato all’utilizzo delle carni di ungulati selvatici. Il progetto, finanziato da Fondazione Cariplo, con capofila ArsUniVCO e la partnership dell’Università degli Studi di Milano e dell’Unione dei Comuni Alta Ossola, ha visto il coinvolgimento di tutti gli stakeholder a vario titolo coinvolti nella gestione del patrimonio faunistico e degli aspetti eno-gastronomici del territorio.
Dal “gusto di selvatico” ai piatti di qualità
La prima fase di progetto, conclusasi nel 2016, finalizzata alla valorizzazione delle carni di selvaggina selvatica, intesa come risorsa rinnovabile del territorio e soggetta a piani di prelievo volti a mantenere le popolazioni in corretto rapporto con l’equilibrio naturale e agro-silvo-pastorale, ha suscitato un grande interesse da parte di tutti gli attori coinvolti. L’elevata qualità organolettica e nutrizionale delle carni, la garanzia di sicurezza alimentare emersa dalle analisi condotte e la richiesta sempre maggiore da parte della ristorazione e del turismo di prodotti genuini e locali, hanno fatto sì che si generasse una partecipazione attiva al progetto. Ne è emersa quindi l’opportunità di proseguire in una seconda fase iniziata nel 2017, volta a promuovere un’attività associativa in grado di gestire questa filiera in sinergia, avendo come priorità la gestione del territorio, il benessere animale, la sicurezza alimentare e la crescita culturale dei fruitori della filiera stessa.
Le basi poste in questo progetto si fondavano sulla qualità del prodotto, sia dal punto sanitario che organolettico e nutrizionale. Le carni di selvaggina, da sempre, nell’immaginario collettivo sono state identificate come “carni nere” dal “gusto di selvatico”. Riuscire a eradicare questi concetti comuni dalla mentalità dei cacciatori e dei consumatori è stata un’impresa ardua ma che ha portato importanti risultati.
Attraverso studi e valutazioni legate alle modalità di prelievo e di gestione della carcassa durante l’attività venatoria, si è osservato come i due aspetti sopracitati fossero di fatto legati alla cattiva gestione delle carcasse stesse: l’eventuale ferimento, il mancato dissanguamento ed un trasporto non rispettoso dei principi basilari di gestione delle carni, influenzano la concentrazione di glicogeno nella massa muscolare impedendo un veloce e rapido abbassamento del pH delle carni, rendendole dure, scure e con un sapore decisamente “forte” e quindi inadatte a preparazioni di pregio (Viganò et al, 20171).
Lavorando sulla formazione del mondo venatorio, sul rispetto del benessere animale anche durante l’abbattimento e sulla gestione delle carcasse attraverso la costruzione di celle di sosta in cui stoccarle per una corretta frollatura, si sono raggiunti risultati inaspettati riguardo la qualità sanitaria e organolettica del prodotto, incentivando anche i ristoratori a investire sulla selvaggina, servendola in modo innovativo e allontanandosi dalla tradizione che voleva la selvaggina cucinata esclusivamente sotto forma di stufati, brasati o gulasch.

Pochi grassi e buon apporto di proteine
La carne derivante dagli ungulati selvatici presenta infatti aspetti interessanti dal punto di vista nutrizionale.
Le carni di selvaggina, seppur diversificate in relazione al sesso, all’età e al periodo di prelievo del capo, sono in generale molto magre e mostrano un contenuto di grasso intramuscolare spesso inferiore al 2/3% (Ramanzin et al, 20102). Il ridotto quantitativo di sostanze grasse intramuscolari può però influire negativamente sulla tenerezza, sulla succosità e sul colore della carne: tutti aspetti rilevanti dal punto di vista sensoriale che determinano l’accettabilità di questo prodotto da parte del consumatore. In particolare, il colore più scuro di queste carni può essere dovuto alla presenza di un maggior quantitativo di mioglobina nel muscolo e ai valori di pH più elevati che si registrano nel caso di una non corretta gestione della carcassa durante i processi post mortem (Viganò et al, 20173).
La carne di selvaggina è inoltre una carne povera di calorie e colesterolo e ricca in proteine (> 22%), ferro, zinco, vitamina B12 e di acidi grassi polinsaturi (Viganò et al, 20194). Gli ungulati selvatici, poiché si nutrono allo stato brado di erbe spontanee e foraggio verde, presentano valori più elevati di acido linoleico coniugato (CLA) e ciò sembra essere correlato al più alto contenuto di acidi grassi polinsaturi presenti nell’erba. Il CLA esplica importanti caratteristiche nutrizionali sull’organismo umano mostrando proprietà antitrombotiche, anticancerogene, immunomodulatorie, diminuendo il rischio di contrarre il diabete e andando a ridurre i quantitativi di massa grassa a favore di quella magra. Inoltre, particolarmente interessante è il rapporto di acidi grassi Ω6/Ω3 che risulta essere molto valido dal punto di vista nutrizionale (inferiore a 4).
Le informazioni nutrizionali di un alimento consentono di operare scelte alimentari e dietetiche consapevoli. Una delle principali novità del Reg. UE 1169/2011 è l’inserimento, dal 2016, della dichiarazione nutrizionale nell’elenco delle indicazioni obbligatorie, che prevede una maggior fornitura di informazioni ai consumatori come supporto alle politiche comunitarie in materia di sanità pubblica e si pone l’obiettivo di garantire scelte alimentari informate. Diventa importante che le indicazioni sulle proprietà nutritive siano riportate secondo una modalità che consenta il confronto tra diversi prodotti. Vista l’importanza che lega la dieta e la salute, fornire i valori nutritivi non può dunque prescindere da una corretta formazione del consumatore sul fronte dell’educazione nutrizionale.
Pertanto, sulla base delle analisi chimico-fisiche svolte sulle carni di selvaggina prelevate, e rapportandole alla tabella nutrizionale, è possibile inserire indicazioni nutrizionali del prodotto selvaggina, che rispettano i parametri legislativi:
- A BASSO CONTENUTO DI GRASSI: le carni di selvaggina contengono non più di 3 g di grassi per 100 g di prodotto
- AD ALTO CONTENUTO DI PROTEINE: oltre il 20% del valore energetico dell’alimento è apportato da proteine (per esattezza, nel caso delle carni di camoscio, capriolo, cervo e cinghiale, l’apporto di energia dalle proteine è rispettivamente del 87,2%, 84,1%, 82,6% e del 83,1%)
- A BASSO CONTENUTO DI GRASSI SATURI: la somma degli acidi grassi saturi e degli acidi grassi trans (nel caso della selvaggina esclusivamente l’acido vaccenico C 18:1 n-7) non supera il valore di 1,5 g per 100 g di prodotto, e tale somma non apporta più del 10% dell’apporto energetico complessivo.